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Vita da editor: intervista a Alessandra Buschi

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Ho il piacere di pubblicare questa intervista rivolta ad Alessandra Buschi, editor e curatrice della Collana “Molliche” per Le Mezzelane Case Editrice. In realtà Alessandra è anche scrittrice, poetessa, pittrice…insomma, è una che ama esprimersi, ecco.

Ciao Alessandra

Iniziamo dalle cose serie: cioccolato al latte o fondente? La risposta non mangio cioccolato non è contemplata.

So che vado contro ogni buonsenso e che perderemo già una buona parte di lettori di questa intervista, ma… al latte!

Sei e fai tantissime cose. Ti piace di più definirti autrice, editor, o semplicemente Alessandra?

Ecco, mi definirei proprio così: Alessandra, o meglio Ale, visto che da sempre sono Ale per tutti. Il fatto che la scrittura e l’arte in generale facciano da sempre parte della mia vita, significa che “quella” sono io, anche se per dire la verità sono più d’accordo col pensarci come “il tutto è più delle singole parti”…

Raccontaci la giornata di un editor. Ad esempio, l’editor è un animale diurno o notturno?

Notturno! O almeno io lo sono e lo sono la maggior parte degli editor che conosco. La mia giornata è suddivisa in varie attività, proprio perché non mi occupo solo di editing. Solo quando ho delle urgenze edito la mattina, che dedico invece in modo più proficuo alla scrittura, soprattutto di articoli e testi (tra le altre cose, mi capita anche di lavorare come gosth writer). In ogni caso, quando si edita, gli inghippi possibili, le cose da controllare e risolvere continuano a tornare in mente per tutto il tempo, anche quando non ci si sta lavorando direttamente. Innanzitutto un editor deve avere sempre la possibilità di consultare dizionari, vocabolari, testi e siti di ogni genere (Google maps in molti casi è indispensabile), quindi ho sempre a disposizione materiale utile. Non c’è neanche bisogno di dirlo: quando si edita, la grammatica e la sintassi rappresentano il controllo di base, e anche verificare le citazioni, cercare i punti deboli della trama, di certi personaggi… Credo sia divertente – in certi casi imbarazzante! – controllare la cronologia del computer di un editor: le ricerche spaziano tra i temi più vari, sui particolari più incredibili. A volte è necessario anche consultarsi con altri editor o con figure professionali specifiche (compresi esperti di greco e latino) per verificare che ciò che è stato scritto sia corretto e realistico, e per questo Le Mezzelane Casa Editrice ha un ottimo team dove poter condividere con i colleghi i propri dubbi o chiedere consigli. A volte le necessità di editing portano a doversi occupare di questioni davvero stravaganti. Faccio qualche esempio, senza andare su argomenti troppo piccanti: se un morto galleggia o va subito a fondo; se ci si può specchiare in una tazzina di caffè; quanto tempo impiega un ascensore a fare tre piani; quanti morti possono stare sul sedile posteriore di una certa auto; se una certa facoltà universitaria c’era già negli anni Settanta; se è corretto utilizzare un certo termine se la vicenda si svolge nel Medioevo; cosa accade se un tosaerba in movimento incontra un nano da giardino… Insomma, si è sempre alla ricerca dell’inghippo, di ciò che non è in linea con il tempo della narrazione o non corretto dal punto di vista tecnico, geografico, ecc. Insomma: un lavoro continuo. Che non si esaurisce con un primo editing, ma che necessita di diversi passaggi tra autore ed editor e che può protrarsi per diverso tempo. La giornata di un editor: leggere, leggere, leggere, e rileggere, controllare, verificare, pensare, proporre…

La cosa più difficile per un editor.

A me personalmente non rimane molto difficile, ma comunque è qualcosa a cui tengo e a cui presto attenzione e che credo a qualcuno non riesca proprio facile: far sì che, malgrado le modifiche, il testo “resti” comunque dell’autore, ovvero non venga snaturato e conservi la mano di chi l’ha scritto. Una regola molto importante a cui non si deve mai trasgredire – e che purtroppo gli autori, soprattutto gli esordienti, non tengono spesso in considerazione – è che tutto – anche in un fantasy, in un erotico o in un libro di fantascienza – deve essere realistico, o meglio: credibile. Di qui tutte le ricerche che è necessario fare di cui raccontavo prima.

Hai all’attivo numerose pubblicazioni ma vorrei ripartire dall’inizio. Com’era esordire nei primi anni ’90 e com’è esordire oggi?

Guarda, non era facile. Non lo era a quel tempo e non lo è adesso, immagino. Per dire la verità le mie prime uscite risalgono agli anni Ottanta e in quel periodo ci sono stati personaggi molto importanti nel panorama della letteratura e delle arti che non sono stati solo maestri per quanto riguarda la scrittura, ma anche maestri di vita, che hanno rappresentato molto per la cultura in Italia in genere. Io ho avuto la fortuna di conoscere persone come Pier Vittorio Tondelli, Joyce Lussu, Marino Sinibaldi, Gilberto Severini e molti altri, anche nel panorama del teatro, della musica, della danza, dell’arte, e so che mi hanno dato molto. Oggi non saprei dire quali siano i corrispondenti di persone di tale statura. In quegli anni c’era tutta una narrativa “sommersa”, di “provincia” davvero interessante. C’erano le “fanzine”, c’erano i festival alternativi… Da un certo punto di vista oggi mi sembra tutto molto più strutturato e meno “spontaneo” rispetto a quegli anni, c’è meno ricerca e forse anche meno coraggio di sperimentare e andare controcorrente. Forse sarà anche perché ho vissuto quel periodo con gli occhi di una donna ancora molto giovane, ma ho l’impressione che si fosse più creativi e interessati a esserlo, rispetto ad adesso. C’erano più possibilità di vivere all’interno di situazioni che facevano riflettere e conoscere nuove cose e prospettive. D’altro canto, già allora l’editoria era già in buona parte in mano a pochi, anche se in quegli anni resistevano ancora diversi editori indipendenti molto ben caratterizzati e ne sono nati altri, poi nel tempo – non tutti, ma in gran parte –  scomparsi o assorbiti dai più grandi.

All’epoca, il numero di nuovi titoli pubblicati all’anno era decisamente inferiore rispetto a oggi. Credi che questo possa influire sulla qualità dei testi?

Oggi senza dubbio la quantità di testi pubblicata è molto più alta di qualche decennio fa, vuoi per scelte editoriali di alcune case editrici, vuoi per la facilità con cui si possono far circolare libri anche in rete e anche per le nuove tecniche di stampa, molto più economiche e veloci rispetto a un tempo. Certo è che ci sono molte case editrici a pagamento che buttano fuori libri così come li ricevono dagli autori, senza alcuna cura di editing o revisione, e questo mi sembra davvero qualcosa di poco produttivo, in primis per un autore. Non so: ho l’impressione che l’obiettivo in molti casi sia quello di raggiungere numeri alti di testi pubblicati (per un editore) e di avere il proprio nome stampato su una copertina (per un autore). Ciò mi fa pensare che tutto sia molto compulsivo, proprio come sono i nostri tempi, con l’attenzione più rivolta alla quantità che alla qualità. Del resto, i migliori autori del passato non tendevano a collezionare centinaia di targhe vinte a piccoli premi o a pubblicare decine e decine di titoli, così come ci sono state case editrici – poi diventate anche importanti – che hanno iniziato pubblicando pochi ma buoni titoli e che così hanno continuato a fare. Il fatto che oggi sia più semplice pubblicare, in un modo o in un altro, non significa automaticamente che la qualità di tutto ciò che esce sia buona.

Una domanda a bruciapelo: se fossi Vera?

Qui ci starebbe bene una faccina che ride, ma da editor non la metterei mai! Ah, ma io Vera non sono! Eh, “Se fossi Vera” sarei diversa da come sono, come lo è la protagonista dell’omonimo racconto del mio libro uscito con la casa editrice Fernandel nel 1999 e che mi ha dato davvero molte soddisfazioni. E che me ne dà di tanto in tanto ancora adesso: quest’anno, per esempio, è sotto gli occhi di una classe di studenti romani, che lo stanno leggendo con il loro professore di lettere e che, se tutto va bene, presto conoscerò. Sapere che ancora viene letto e apprezzato, beh, è una gran cosa. A suo tempo è stato molto apprezzato perché sembra fosse uno dei pochi testi usciti fino a quel momento in cui il protagonista – anzi la protagonista – è una persona disabile.

Tra l’altro, sei stata inserita in un’antologia del 1993 curata da Joyce Lussu. Ammiro Joyce Lussu e anche se non la ammirassi dovrei fingere di adorarla per forza perché mia moglie è una femminista militante e radicale.

Semplificando al massimo (lo so, è quasi una domanda da rotocalco) quali sono le differenze più grandi che rilevi tra il sentire maschile e quello femminile, quando si tratta di autori e autrici?

Non ti sarà quindi passato inosservato il fatto che a una domanda precedente abbia annoverato proprio Joyce Lussu tra le persone importanti della mia vita… Con Joyce ho avuto diverse importanti esperienze, ho frequentato molto la sua magnifica casa a Paludi di Fermo e lei la mia a Castiglioni di Arcevia; abbiamo viaggiato un po’ insieme; abbiamo organizzato le prime “università verdi” che hanno caratterizzato i movimenti ecologisti degli anni Ottanta; abbiamo collaborato a diversi libri; anche se non in modo dichiarato, ho editato diversi suoi libri; una delle mie figlie si chiama Sibilla proprio in suo onore; abbiamo discusso molto, riso molto, fumato molto e anche litigato. Da lei ho imparato moltissime cose che un giorno mi piacerà raccontare. Una fra tutte, il significato più profondo del termine “civile”. Ecco, arrivando alla tua domanda: devo dire che oggi sento un po’ meno la differenza di una letteratura maschile e di una letteratura femminile rispetto a qualche decennio fa, mi sembra che su questo si sia progrediti almeno un po’. Nella domanda hai usato l’espressione “sentire” e penso che sia quella più adatta: si tratta proprio di un “sentire” diverso, che si esprime in ogni genere letterario e che credo sia proprio qualcosa che riguarda una diversità insita nel maschile e nel femminile, al di là della scrittura o di qualsiasi altra arte. E non lo vedo come un problema, ma semmai una sfaccettatura dell’essere umano. Il problema, semmai, è sempre stato quello di mandare avanti solo – o almeno soprattutto – un solo modo di “sentire”, che non è quello femminile. Di certo i dati ci sono, ma non li conosco; in ogni caso, ho l’impressione che in circolazione ci siano più autori (intendo pubblicati) rispetto ad autrici, quando sembrerebbe siano più le lettrici che i lettori. Anche questa mi sembra una cosa un po’ particolare, no?

Scrivi poesie.

E io adoro la poesia.

Tutti citano poesie.

Quando vogliono esprimere la bellezza assoluta dicono trionfanti è pura poesia.

Ma mi spieghi perché allora quasi nessuno in Italia legge poesia?

Non credo sia una questione solo italiana, ma generale. La poesia si legge poco ma si scrive molto. Mi chiedi di spiegarti questa faccenda ma io non te la so spiegare. Potrei però dirti ciò che penso, e cioè che la poesia non può non esistere. È qualcosa di così sottile e profondo che non può non esserci. Qualcosa che vive in molte persone, anche in quelle che non scriveranno mai un verso in vita loro, a cui non verrà neanche mai l’idea di scrivere, che forse non sanno neanche scrivere. Ma “dentro” la poesia c’è. Oggi con la rete è più facile che si conoscano poesie e autori, o almeno alcuni versi tra i più famosi. Faccio un esempio: di Alda Merini tutti almeno qualche verso lo conoscono, così come tutti conoscono alcuni dei più famosi versi d’amore di Nazim Hikmet – e torniamo sempre lì: Joyce Lussu è stata proprio la traduttrice delle sue poesie d’amore… – Internet è un gran calderone di citazioni e versi poetici non mancano. Per me la poesia è stata il primo amore, a cui mi sono infine dedicata “seriamente” solo negli ultimi dieci-quindici anni, o meglio, a cui ho dato più spazio rispetto alla prosa. È la “condizione” in cui mi sento più a mio agio, più “a casa”, che mi rende più libera, anche se, allo stesso tempo, mi dà dei confini, delle “regole”. La poesia per me è naturale, ma nel contempo una sfida. Mi fa mettere in gioco. Credo che sia questo che si possa apprezzare della poesia: la verità.

Tra l’altro, in Italia la gente legge poco in generale. Lo ripetono di continuo. Tu sei d’accordo?

Si legge poco ma non troppo poco, credo. Meno che in altri Paesi però di sicuro. Per una quindicina di anni ho avuto più il polso della situazione perché sono stata presidente di una piccola cooperativa libraria, adesso ho meno dati diretti sotto mano. In ogni caso, si legge più da bambini, poi la tendenza è quella di allontanarsi dalla lettura – c’entrerà qualcosa la scuola, che ti fa perdere questa voglia? – ma poi si riacquista una volta che si è più grandi, soprattutto se da piccoli si è stati educati all’ascolto e alla lettura. Questo in generale, poi i casi particolari sono molti e diversi. Per esempio sembra che molte persone durante la pandemia abbiano riscoperto questo piacere, altre invece, proprio in questo momento particolare, pur essendo forti lettori, se ne sono allontanate. A vedere l’affluenza alle maggiori fiere, questa poca lettura in Italia non si direbbe: il Salone del Libro di Torino, per esempio, quest’anno è stato affollatissimo. È vero anche che forse c’è più gente che scrive rispetto a gente che legge. Ecco: il problema può essere che molta gente che pretende di scrivere e poi pubblica (di solito a pagamento), legge davvero molto poco…

Ammiro il coraggio e la grinta dei piccoli editori. Tu come vedi il futuro della piccola editoria?

È qualcosa di molto importante. Come dicevo, non ci si dovrebbe basare sui numeri per valutare la qualità, e quindi non su quanti libri all’anno pubblica una casa editrice o su quante copie di un libro vende. Purtroppo sappiamo come la grande editoria sia ormai in pratica un monopolio dal punto di vista commerciale, ma sappiamo anche quante piccole case editrici di pregio ci sono, quante persone serie ci lavorano, quanta cura e passione viene messa in ogni fase di pubblicazione di un libro e per la sua promozione. Mi sembra che i premi più grossi lo dimostrino: negli ultimi anni escono vincitori parecchi autori che pubblicano con piccole e medie case editrici, non solo con quelle che hanno la maggior parte del mercato nazionale.

Per Le Mezzelane Casa Editrice sei curatrice della collana “Molliche” destinata ai bambini. Ti chiedo, pertanto, c’è speranza con i libri illustrati di tenere testa allo strapotere dei videogiochi? Mio figlio di quasi dieci anni traffica sempre con Minecraft e dice che leggere è noioso. Ma almeno apprezza le figure…

Bisognerebbe innanzitutto capire cosa viene proposto in lettura a un bambino: talvolta si tratta di “errori” inconsapevoli e in buona fede di genitori e insegnanti, che propongono letture che non appassionano quel determinato bambino, che non lo fanno entrare nel magico mondo dei libri. Lo so perché capitava molto spesso anche a me in libreria: è difficile far capire a un genitore o a una qualsiasi altra persona che vuol regalare un libro a un bambino che non necessariamente ciò che piace a lui/lei, piacerà al piccolo che lo riceverà. Faccio un esempio: non si può dare in mano a un bambino “Il piccolo principe” come niente fosse e pensare che dopo averlo letto diventerà automaticamente un grande lettore. Tutti sanno che si tratta di un bel libro e lo regalano, ma sono sicura che la maggior parte dei bambini che se lo ritrovano sotto gli occhi non riescono ad apprezzarlo e non sono invogliati a continuare a leggere. Purtroppo spesso da adulti ci si dimentica come si era da bambini e così si propongono testi che potrebbero piacere a noi adesso, ma che per un bambino non sono interessanti e annoiano. C’è anche da dire che è molto importante una “educazione alla lettura”, e quindi accompagnare i bambini nella lettura, soprattutto nei primi anni, è fondamentale per far loro apprezzare anche in futuro i libri e farli rientrare nei loro interessi quotidiani. Allo stesso modo, la genialità e la fortuna che hanno avuto certi autori per l’infanzia sta proprio in questo: nel sapersi ancora mettere nei panni dei piccoli lettori perché non hanno dimenticato la loro parte bambina e scrivono proprio ciò che questi vorrebbero venisse raccontato loro. Il discorso dei libri illustrati secondo me è molto importante: il potere che ha un canale visivo come l’illustrazione, soprattutto per i più piccoli, è molto forte per accompagnare alla lettura. Anche qui c’è da fare dei bei distinguo: la buona illustrazione non è solo quella che sottolinea la parola scritta, ma anche e soprattutto quella che dà ancora di più a un testo. Oggi ci sono degli illustratori davvero fantastici per l’infanzia, che senza dubbio danno pregio a molti libri e sanno dare molto ai piccoli lettori. È molto interessante osservare quali libri sceglie un bambino se lo si lascia libero di scegliere…

Qual è il tuo rapporto con la tecnologia? Io la uso di continuo per la sopravvivenza ma personalmente tornerei al mulino ad acqua.

Sono piuttosto tecnologica direi, anche perché ho iniziato a usare la tecnologia molto presto. In pratica sono stata una delle prime persone in Italia a utilizzare i programmi di impaginazione per l’editoria negli anni Ottanta e ho avuto presto Internet. Uso la tecnologia in continuazione anch’io, per lavoro ma anche per passione. Mi piace sperimentare e la tecnologia mi dà molti strumenti. Per esempio lo scorso inverno ho lavorato molto con videoletture che ho realizzato con l’Associazione T-Vittori e il Comune di Serra de’ Conti, visto che avevo dovuto interrompere un progetto di lettura in presenza con i bambini a causa della pandemia. Allo stesso modo, utilizzo la tecnologia per realizzare videopoesie con miei testi, disegni e musiche (qui un esempio alla mia pagina Facebook: https://www.facebook.com/alessandra.buschi/videos/10222628536295155). Nel contempo, se mi trovo di fronte a uno scaffale di belle penne o bei quaderni, so cosa fare! Diciamo che della tecnologia utilizzo gli strumenti che possono darmi più possibilità di creare. Anche per quanto riguarda l’editing, come dicevo, avere la possibilità di accedere a così tanto materiale e anche di stare in stretto contatto con gli autori, è sicuramente qualcosa di molto utile e pratico.

Advisory: qui scendiamo su una questione tecnica da fanatici della scuola e della psicologia infantile. Gli insegnanti sono fanatici per natura perché parlano di scuola anche a ferragosto. Se quindi volete evitare, passate fischiettando allegramente alla domanda successiva.

Ti occupi anche di disturbi dell’apprendimento e io sono insegnante di scuola primaria. Non posso fare a meno di notare delle difficoltà generalizzate, soprattutto nella capacità di ascolto e nel mantenere l’attenzione. E questo succede anche quando non sono presenti veri e propri disturbi strutturati. Mi interessa un tuo parere a riguardo.

Questo è un argomento che sta molto a cuore anche a me. Sono infatti tecnico in problematiche socio-educative – DSA e ho qualifiche anche come esperto in processi di apprendimento, operatore per portatori di handicap e counselor con la qualifica di agevolatore nella relazione d’aiuto e tecnico socio-assistenziale individuale e di gruppo. Ho abbastanza esperienza nel campo dei bambini e dei ragazzi, sotto diversi punti di vista, e devo dire che la domanda del perché oggi si riscontri tanta difficoltà nella capacità di ascolto e nel mantenere l’attenzione è all’ordine del giorno. Si fanno paragoni con le generazioni precedenti, ci si chiede “ma perché oggi…?”, si notano casi di bambini e ragazzi che hanno delle vere e proprie difficoltà ad affrontare il percorso scolastico e non solo… Secondo me la questione è complessa e non può essere liquidata guardandola sotto un solo punto di vista: sono moltissime le ragioni per cui oggi riscontriamo queste difficoltà anche in bambini e ragazzi che non hanno dei veri e propri disturbi diagnosticati, e da tutto ciò noi adulti non siamo affatto esenti. C’è da pensare anche a ciò che chiediamo ai bambini di oggi, a quanto ciò che pretendiamo da loro sia in linea con il loro essere bambini di oggi, diversi in modo profondo da chi per esempio la tecnologia l’ha inventata ma l’ha vissuta solo in parte; a quanto tutto ciò che per noi è qualcosa di acquisito sia invece per loro il comune vivere quotidiano; a quanto sia sempre più pressante la società di oggi sotto molti punti di vista (prestazioni, aspettative, attributi fisici, possibilità economiche…), a come anche i canali preferenziali di apprendimento siano cambiati. La nostra società è proprio cambiata: basti pensare a quanto sia cresciuta l’età media e come possano essere diversi i genitori di oggi da quelli per esempio del dopoguerra: a cinquant’anni si era in pratica vecchi, ai margini ormai della società, mentre oggi a cinquant’anni si è in perfetta forma fisica e mentale, nel pieno degli anni, magari si hanno figli ancora piccoli. Neanche i nonni di oggi sono come erano i nonni di qualche decennio fa! Ciò che riporto anche qui è la difficoltà che abbiamo a pensare ai bambini come esseri diversi da noi, soprattutto in questi ultimi decenni, quando così tante cose sono cambiate molto velocemente. È come se ci fosse uno scarto, una distanza, tra ciò che è e ciò che vorremmo fosse. Faccio un esempio: tutte le problematiche legate ai disturbi di apprendimento esistono nel momento in cui un bambino deve adattarsi a un certo tipo di apprendimento, a un certo tipo di istruzione, di scolarizzazione. Non esisterebbero in un altro tipo di società, se non venissero richieste certe prestazioni, certi tempi, certe competenze. Mi domando quindi se non è davvero il momento di adeguare la scuola e l’istruzione a come sono i bambini di oggi, più che il contrario. Il fatto che si perseveri nell’imporre un certo modo di apprendere, di fare scuola, di insegnare, non mi sembra poi così funzionale se poi i risultati sono quelli di un dilagare di disturbi e problematiche di vario tipo e che per i bambini e i ragazzi stessi rappresentano un grave ostacolo per la stima di sé e per la propria realizzazione. Senza pensare alle difficoltà che incontrano anche le famiglie e ai rapporti difficili che si vanno a creare… La tensione è all’ordine del giorno. Questo è ciò che penso io, e che potrebbe anche non essere condiviso, ma sono queste le osservazioni che ho potuto fare nel corso delle esperienze che ho avuto in diversi ambiti, da quello educativo a quello della scrittura creativa e all’animazione. C’è poi da pensare, in questi ultimi tempi, a come i bambini e i ragazzi si siano trovati a vivere la pandemia e come questa condizione possa aver influito su di loro e come influirà sul loro futuro. Basterebbe talvolta cercare di ricordarsi come eravamo noi alla loro età, cosa desideravamo, come sentivamo, quali erano i nostri bisogni, per capire quante difficoltà possono avere oggi e quanto possa essere difficile la loro infanzia e adolescenza…

Bambini di ieri e bambini di oggi. Io ricordo che ero tordo, senza offesa per i tordi. I bambini di oggi invece hanno mille potenzialità e opportunità in più ma paradossalmente vivono in un mondo dove il virtuale spadroneggia e dove l’interazione umana è sempre più carente. Ti chiedo di immaginare il loro mondo tra vent’anni.

Sono una che fantasia ne ha abbastanza, ma ecco: immaginare come saranno fra vent’anni i bambini di oggi non mi è molto semplice… Come dicevo, se si continua a perseverare nel farli andare in una direzione che non tiene conto dei tempi e delle modalità profondamente diversi da quelli che appartenevano alle generazioni precedenti, l’immagine che ho è di adulti poco felici. Non sentirsi adeguati mi sembra che non porti mai a qualcosa di buono. D’altro canto, ripongo molta fiducia in generale nell’essere umano e penso che siamo esseri che, in un modo o nell’altro, riescono sempre a “salvarsi”. In effetti abbiamo sempre avuto una grande capacità di saperci adattare e di trovare comunque il modo per sopravvivere, e questo non mi preoccupa. Mi preoccupa di più il modo in cui potranno vivere i bambini di oggi fra vent’anni: se appunto saranno felici, soddisfatti di ciò che sono e fanno, se sapranno vivere appieno la loro vita e, come dici tu, se la sapranno vivere al di là di uno schermo e di una tastiera, se avranno un pensiero critico e autocritico… Anche il credere che abbiano molte più potenzialità e opportunità di quelle che abbiamo avuto noi in precedenza è “vederla” con i nostri occhi, non con i loro. Ecco, mi chiedo: fra vent’anni, potranno dire di aver avuto molte più potenzialità e opportunità rispetto a noi? Chissà…

Descrivimi le Marche in due parole.

Mi chiedi due parole per descrivere le Marche. Te ne dirò una: colline. E con questo intendo non solo un paesaggio fisico, geografico, così bello e particolare, ma anche un “andamento” generale: un saliscendi continuo, qualcosa che non è mai completamente piatto ma non proprio una montagna, o se lo è, presto muta in qualcosa di più “dolce”. Mi viene da pensare – sarà la mia parte poetica? – che le colline marchigiane, che così tanto rimangono impresse a chi non abita questo territorio, siano come la continuazione delle onde dell’Adriatico che le lambisce, non troppo potenti perché si tratta di un mare chiuso, piccolo, stretto, che proseguono verso l’interno, per raggiungere le montagne. E così come la loro struttura fisica, le Marche sono qualcosa “di mosso”, in continuo, piccolo, talvolta impercettibile movimento. Qualcosa che non è mai uguale, basta spostarsi di poco ed è già diverso. Una specie di luogo dove convivono molte cose diverse. Non sarà un caso che è l’unica regione italiana ad avere un nome plurale…

E cosa mi dici della tua Toscana?

La “mia” Toscana, sì: benché abbia avuto genitori marchigiani e sia venuta ad abitare nelle Marche, sono nata in Toscana e per molti versi mi sento ancora toscana. Un po’ ibrida, per la verità, non con un’unica casa. Ho vissuto una Toscana abbastanza selvaggia, in Maremma negli anni Sessanta e Settanta, quindi per me è sinonimo di libertà più pura, molto vicina alla natura e alla sua forza. Esperienze d’infanzia e di adolescenza, quelle che poi restano più impresse, nel bene e nel male, che formano. Venire ad abitare nelle Marche non è stata una mia libera scelta e sinceramente non l’avrei fatta, sarei volentieri rimasta in Toscana. Ho faticato molto i primi tempi ad abituarmi a molte cose diverse, soprattutto il carattere delle persone mi sembrava davvero tanto diverso, e mi sembra così anche ora quando torno là. In Toscana mi sembra che tutto (natura, persone, linguaggio…) sia… esplosivo, o bianco o nero, mentre nelle Marche tutto sia molto meno evidente, più mescolato, più “dolce”. E questo, da entrambe le parti, può essere meglio o peggio, a seconda delle situazioni, delle occasioni e di ciò che si cerca in un luogo da abitare.

Quindi non sarò così cattivo da chiederti “Marche o Toscana?”. Una domanda però te la faccio lo stesso: se Leopardi fosse nato in Toscana, avrebbe avuto lo stesso appeal secondo te?

Riguardo alla “domanda cattiva” che non mi hai voluto fare, ti dico che ormai ho imparato ad apprezzare le Marche, anche se, come dicevo, con molta difficoltà iniziale, e che questa “dolcezza” delle colline mi si confà sempre più, con gli anni che passano. Dentro, però, so di essere molto più esplosiva, più toscana che marchigiana! Per quanto riguarda il nostro caro Giacomo, io non so se hai letto in rete qualcosa di me e questa domanda me l’hai fatta apposta: in ogni caso, rimando molto volentieri a un mio testo che scrissi nel 2001 per un progetto davvero carino riportato nel sito di quello che poi è diventato un mio carissimo amico, lo scrittore Antonio Messina (anche lui con trascorsi toscani come me e ora a tutti gli effetti residente nelle Marche, a Fano),  che si intitola proprio “Leopardi” (http://www.antoniomessina.it/donoospite/leopardi-alessandra-buschi) e che può dare ai lettori una piccola spiegazione di quelle differenze che sento tra Marche e Toscana.

Grazie mille Alessandra.

Grazie moltissimo a te, Marco. Mi hai fatto “parlare” tantissimo con le tue molte e interessanti e variegate e stimolanti domande!

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