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Intervista a Ivan Sciapeconi

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Salve a tutt*! Ho l’onore di offrirvi questa intervista a Ivan Sciapeconi, autore di “Quaranta cappotti e un bottone” edito da Piemme. E’ un romanzo basato sulla vera storia di quaranta ragazzi ebrei portati in salvo dalla solidarietà della comunità di Nonantola, nel modenese (il romanzo è già stato recensito su questo sito https://marcoghergo.com/recensione-di-40-cappotti-e-un-bottone-di-ivan-sciapeconi/)

 “Quaranta cappotti e un bottone”: raccontaci com’è nata in te l’idea di affrontare una tematica così (passami il termine) complessa come quella della Shoah.

Ti ricordi di Luca Traini? Nel 2018 prese una pistola e girò per Macerata alla ricerca delle persone di colore da colpire. Lui aveva identificato il nemico con un preciso genere di diversità. Anzi, sull’onda di una narrazione molto di moda, aveva associato le due cose: nemico e diverso. A Nonantola, il paese che racconto nel mio libro, ottanta anni fa le persone hanno saputo reagire a una narrazione simile e hanno salvato gli ebrei appena arrivati in paese. Così, tutti insieme. Senza nessuna apparente ragione, se non l’umanità che accomuna salvati e salvatori.

Una delle cose che mi colpisce e spaventa nei romanzi con sfondo storico è il lavoro di documentazione da fare a monte. Come hai operato da questo punto di vista e quanto tempo ha richiesto?

Sono stato fortunato perché il lavoro storico è stato fatto da un grande esperto: il tedesco Klaus Voygt. Ho studiato sui suoi libri, sui diari dei sopravvissuti, e sulle interviste agli anziani di Nonantola che a quel tempo erano bambini. Ho parlato anche con una delle protagoniste che oggi ha 96 anni molto ben portati.

Che poi, quando si parla di Shoah, il rischio è sempre quello di scadere nel dramma gratuito. Tu invece riesci a giocare tutto sulla speranza e sulla “banalità del bene” che spesso alberga nell’essere umano. Non è una cosa facile…

Hannah Arendt preferiva parlare di profondità del bene, in contrapposizione alla superficiale banalità del male. La parola “profondità” è molto importante perché ci porta a pensare che il bene va cercato, meditato, messo in opera. Se le persone di Nonantola avessero fatto la cosa più ovvia, immediata appunto, non ci sarebbero stati dei salvati.

Tra le altre cose, questa è una storia di solidarietà e di disobbedienza civile, se vogliamo. Ma sembra qualcosa di molto lontano nel tempo, quasi leggendario. Credi che ci sia spazio oggi come oggi per atti di eroismo simili?

Penso che la guerra in Ucraina di questi giorni ci conceda il tempo e lo spazio per una riflessione. Chi sono gli eroi, oggi? Per me sono quelli che rifiutano la logica delle bandiere che appartengono a una visione del mondo del secolo scorso. Oggi le sfide che abbiamo davanti (la salute globale, il clima, la pace…) hanno tutte un carattere sovranazionale. Impossibile affrontare i temi globali partendo da una visione nazionale o, peggio, nazionalista. Per me l’eroismo, oggi, coincide con la diserzione, con la disobbedienza a logiche che producono sofferenza. La risposta, individuale e collettiva, non può che essere questa.

Io noto che nel Giorno della Memoria, l’opinione pubblica è pronta a ricordare con commozione quegli eventi terribili. Eppure oggi accadono cose molto simili (e penso nello specifico ai morti nel Mediterraneo o alla rotta balcanica) ma spesso se ne parla a fatica, come a voler nascondere la polvere sotto il tappeto. Mi piacerebbe una tua riflessione al riguardo.

Confinare l’esperienza all’interno del cerchio della memoria è tristemente utile perché consente di non doversi interrogare sul presente. Eppure, ancora oggi il presente impone una presa di posizione soggettiva. Torno sulla guerra in Ucraina: l’esperienza di una nuova guerra sul territorio europeo ha riportato alla luce un atteggiamento bellicista, una visione retorica della guerra e della pace. È difficile rinunciare alla retorica, è troppo rassicurante. Dovremmo aggiungere al giorno della Memoria il racconto del Bene. Di fronte a una tragedia come quella della Shoah, c’è stato chi ha rinunciato alle certezze fornite dalla narrazione ufficiale e si è assunto una responsabilità. È grazie a quella responsabilità e a quelle scelte se oggi possiamo continuare a dirci umani.

Sei insegnante di scuola primaria, come me, e sai molto bene che non esistono bacchette magiche per migliorare la società. Ma vorrei sapere qual è la formula migliore, secondo te, per arrestare questo revisionismo e questo benaltrismo imperante, specie di fronte a eventi storici come la Shoah.

L’educazione alla solidarietà e alla relazione. Ti direi l’educazione alla cooperazione. La scuola è una delle ultime istituzioni ancora solide. La cosiddetta società liquida è entrata solo in parte nelle aule scolastiche e, per un periodo tutto sommato piuttosto lungo, le nuove generazioni continuano a sperimentare lo stare insieme. Non voglio dire che la scuola sia passata indenne all’ultraliberismo o alla ricerca smodata della competizione, non è così. Diciamo che ha ceduto meno spazio di altre istituzioni e di altri contesti.

Una citazione che ti ha cambiato la vita.

“Time You Enjoy Wasting Is Not Wasted Time.” Il bello è che stata attribuita a John Lennon, a Bertrand Russel e ad altre personalità importanti. Forse l’ha detta semplicemente uno stanco di lavorare…

Un augurio per il 2022.

Il mio augurio è una frase tratta dalla versione ebraica della chiamata di Dio ad Abramo: “Vai verso te stesso”.

Grazie Ivan.

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